Reportage

AFFRESCHI NEL SILENZIO

EREMO DI SANT’ALBERTO DI BUTRIO

“Silenzio” è la prima parola che si legge ancor prima di avvicinarsi all’eremo: un campanile dritto tra le nuvole ricorda che quello è un luogo di fede. Una grande quercia fa ombra sull’ingresso claustrale e un parco curato con germogli in fiore circonda insieme alle dolci colline pavesi l’appartato complesso altomedievale. Spesse mura in pietra e finestre molto piccole per far entrare poca luce, quanto basta per accompagnare la preghiera. C’è poca gente, e nessuno disturba la pace di quel luogo immerso nel verde e nell’azzurro di un cielo limpido, dove l’aria sa ancora di buono e vien voglia di farne una scorpacciata nei polmoni, per immagazzinare dentro qualcosa che ci fa bene davvero.

Quindi mi avvicino, in silenzio, fino a un ingresso, aspettandomi un luogo buio, illuminato da poche candele e, invece, una tavolozza di colori tenui e brillanti al tempo stesso, ricoprono le curve delle volte, delle arcate e le lunette della piccola chiesa di Sant’Antonio. Scene di fede, profeti, ma anche nobili cavalieri e una principessa salvata dal drago del male. Figure di santi a grandezza naturale ricoprono i pilastri, facendo da cornice a un piccolo altare, umile e raccolto, e tutt’intorno stelle che brillano, come in un romantico quadro naif.

Disegni semplici, piatti come quelli dei mosaici bizantini e che come loro si fanno guardare. L’occhio non si sposta e rimango a osservare quei dipinti in cui, nonostante la semplicità delle forme, mi incuriosisce la ricerca di una certa eleganza e raffinatezza. Pare sia stato un frate il loro magnifico autore, lasciandoci il nome del committente, ma non il suo.

Le figure dipinte mi ricordano quelle delle lettere iniziali dei manoscritti miniati, quei rari gioielli lasciati da monaci, anch’essi rimasti anonimi, curvi per anni sugli scrittoi per rendere ancor più preziosi i codici antichi.
Sono uomini che al centro della loro vita non hanno messo se stessi, ma Dio, proprio come Sant’Alberto, che in questo posto decise di ritirarsi.
Questo è un luogo perfetto per il raccoglimento: protetto dall’Appennino alle spalle, ma aperto su una valle rasserenante, come una finestra sul mondo, quello puro.

EREMO DI SANT’ALBERTO DI BUTRIO

“God’s window”, la finestra di Dio: si chiama così una terrazza panoramica in Sudafrica, ma penso che questa sia, non meno di quella, un’incantevole finestra di Dio, e anche dei pochi frati, solamente sei, che hanno deciso di vivere qui, insieme alla fede e al silenzio.

Discreti, non si avvicinano se non sono io a cercarli; l’eremo è un posto del rispetto, e nel rispetto ogni cosa è in ordine e curata, perchè quella è una casa di cura: la pace cura lo spirito.

DOVE SI TROVA

Su uno sperone roccioso che emerge dal fondo valle, entro una verde chiostra montana, nella località di Abbadia Sant’Alberto, una frazione ancora inviolata dell’Oltrepo pavese.

LA GROTTA DI SANT’ALBERTO E LE ORIGINI DELL’EREMO

La tradizione racconta che nel 1030 Alberto andò ad abitare in solitudine in una grotta nei pressi dell’eremo e che, un giorno, un nobile cavaliere passando di lì mentre andava a caccia, notò che il suo cane si fermò dinanzi a lui. Il cavaliere capì che quello era un eremita e raccomandò alle sue preghiere il figlioletto muto dalla nascita che, dopo essere stato benedetto da Alberto, iniziò a parlare.

Il nobile era il marchese Malaspina e, in segno di riconoscenza, fece costruire lì vicino la chiesa di Santa Maria, e probabilmente qualche locale intorno alla torre, per Alberto e per il gruppo di fedeli che pian piano si erano raccolti intorno a lui, costituendo la prima comunità monastica di quei luoghi.

Si narra che Alberto abitò in quella grotta per molti anni e lì morì nel 1073. Oggi quella grotta non esiste più, ma una piccola e semplice cappella è stata costruita, agli inizi del secolo scorso, nel luogo in cui, secondo quanto ci è tramandato, si trovava quella originale, in mezzo ai verdi boschi di castagni. E quando ci si trova davanti, è impossibile non pensare a quell’uomo, Sant’Alberto, raccolto tra le umide pareti di quelle rocce, protetto dal mantello impenetrabile della sua fede.

LA STRUTTURA

L’eremo appare costituito da elementi romanici strutturati in modo artisticamente incongruo e che si sono accostati nel tempo.

IL CHIOSTRINO

Dell’antico complesso monastico rimane attualmente un’ala dove si conserva il pozzo e il cosiddetto chiostrino, adornato da pregevoli capitelli romanici, mentre l’antica torre, che in origine serviva a proteggere l’eremo dalle incursioni dei pirati e dalle insurrezioni popolari, viene tramutata in campanile.

LA CHIESA DI SANT’ANTONIO

Il primo ambiente che accoglie il visitatore è la chiesa di Sant’Antonio, risalente al 1300 circa, custode degli incantevoli affreschi quattrocenteschi, che parlano un linguaggio semplice e locale, certamente lontano dalle novità rinascimentali degli stessi anni. Scene di fede, figure di santi ma anche soggetti di gusto fiabesco, dai colori delicati e raffinati e spesso privi di solidità corporea e di riferimenti spaziali, come a voler porre queste figure al di fuori del tempo.

LA CHIESA DI SANTA MARIA

La più antica, fatta edificare dal marchese Malaspina come ex voto in seguito al miracolo di Sant’Alberto, verso la metà dell’XI secolo. La chiesa, a un’unica navata e costruita con solidi blocchi di pietra dell’Appennino di taglio incongruente, è molto suggestiva, pur essendo priva di decorazioni. È un edificio romanico nella sua accezione più pura: la sua struttura, disassata e non simmetrica, mostra perfettamente il romanico inteso come esaltazione della difformità, che rispecchia volutamente quella dell’uomo.

LA CAPPELLA DI SANT’ALBERTO

Costruita verso la fine del XI secolo, la cappella conserva le reliquie del santo, insieme a due interessanti affreschi in prossimità dell’altare: quello sulla destra raffigura un miracolo compiuto da Sant’Alberto a un banchetto; l’affresco di sinistra rappresenta la Madonna con il Bambino e i Santi, tra cui Sant’Antonio, raffigurato con il famoso fuoco. Sulla cornice è riportata, con una scrittura gotica, la data del 23 settembre 1484.

LA SUA STORIA

L’abbazia diventò negli anni un centro spirituale importantissimo e vi soggiornarono personaggi illustri di cui rimane memoria, tra cui il fuggiasco Re d’Inghilterra Edoardo II Plantageneto, la cui personalità è descritta nel film Braveheart di Mel Gibson, il quale, a differenza del padre Edoardo I, fondatore della celebre Università di Oxford, era uomo debole ed effeminato, osteggiato dalla nobiltà e dal clero.

Per evitare scandali, fu fatto credere morto, costretto a fuggire e a ritirarsi tra queste mura, dove terminò i suoi giorni. Una targa nell’eremo ricorda il luogo della sua prima sepoltura, successivamente ristabilita in Inghilterra.

Il centro monastico vide anche la presenza di altri personaggi noti, come Federico Barbarossa e Dante Alighieri.

Gli eremiti di Sant’Alberto rimasero nell’eremo fino alla fine del XV secolo, dopo di che, con l’avvento degli abati commendatari, incominciò un periodo di decadenza. Alla fine del XVI secolo la chiesa diventa parrocchia diocesana, ma i tre secoli successivi furono di quasi abbandono totale e il monastero e parte della torre furono distrutti.

Nel 1900, con la riesumazione dei resti mortali di Sant’Alberto, attualmente raccolti sotto una statua di cera nella chiesa, Don Orione ripopola l’eremo abbandonato coi i suoi frati, gli Eremiti della Divina Provvidenza, dei quali forte è il ricordo e la devozione verso Frate Ave Maria, il Frate cieco che visse tra quelle mura dal 1923 al 1964, ora in attesa di essere beatificato.

I SUOI FRATI

Conosco Fra Ivan, il quale con tanta semplicità mi spiega come si svolge la vita dei frati che abitano l’eremo, scandita dai momenti di preghiera, alternati a quelli dediti alla manutenzione del luogo, nel contatto con la terra, secondo la regola benedettina di Ora et labora, e nella spiritulità di Don Orione, operando carità e accoglienza.
Fra Ivan gestisce il piccolo negozio accanto al chiostrino, dove si vendono prodotti a base di erbe medicinali, oggetti di fede, ma anche il miele di acacia e di castagno, raccolto da Fra Fausto dalle colorate casette delle api poste ai piedi dell’eremo.

Gli esprimo un mio desiderio, che può sembrare banale, ma a cui tengo moltissimo: vorrei fotografarli tutti insieme, senza violare in alcun modo il loro isolamento.

Mi accordo per un giorno preciso, alla fine della messa pomeridiana. Ed ecco che dal chiostrino arrivano uno alla volta, guardandomi un po’ incuriositi per la mia singolare richiesta; mi presento, ringraziandoli per essere venuti tutti lì per me, per regalarmi il loro sorriso, che oggi voglio immortalare in questa bella foto, indicando ad uno ad uno il loro nome, perchè non venga mai dimenticato, come quello di quei monaci curvi sui codici miniati, o come quello del frate che ha dipinto quei magnifici affreschi, che ancora oggi risplendono, avvolti nel silenzio.

Da sinistra verso destra: Fra Patrick, Fra Luigi, Fra Fausto, Don Agostino, Fra Alessandro, Fra Ivan

Testo di Scilla Nascimbene

Foto – ©Matteo Marinelli e ©Scilla Nascimbene

La R.T. EARTH ringrazia per la collaborazione e la disponibilità la comunità dei Frati dell’Eremo di Sant’Alberto di Butrio

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